Non è facile esprimere le sensazioni che si provano il giorno dopo, quel misto di malinconia del “non più” e di convinzione del “non ancora”. Se qualcosa si può dire è che il giorno dopo, il famoso “the day after”, non è: non è bello ma non è brutto, non è facile ma nemmeno difficile, non è una fine ma nemmeno un inizio.
E questa stessa cosa, non so voi, ma a me capita anche in questi giorni, in cui a fatica mi trascino nella routine quotidiana con ancora in bocca il sapore della copeta e del cotechino con le lenticchie, e negli occhi lo scintillio delle luminarie.
E nel cuore? Lì, cos’è che resta? Nella mia vita di tutti i giorni, cosa resta di quanto ho vissuto? Cosa è cambiato?
Non è un discorso sull’onda del sentimentalismo del “A Natale siamo tutti più buoni”, nulla di tutto questo. È, o meglio vuole essere, una riflessione libera sul modo in cui viviamo il nostro tempo, le occasioni che ci vengono date.
Sarebbe bello, e anche molto facile, guardare ai giorni di Natale appena trascorsi semplicemente dicendo “Che giornate rilassanti! Finalmente mi sono riposato; sono stato con la mia famiglia e con i miei amici. Proprio quello che ci voleva per ricaricarsi”.
Tutto qui, mi chiedo. Tutto qui quello che ho sperimentato in questi giorni? Veramente il Natale vale così poco?
Tolte le palline dall’albero, che a fatica rientra nel suo scatolone di cartone, come se anche lui accusasse gli stravizi delle feste, riposti in soffitta gli addobbi colorati, spente le lucette che prima scintillavano in ogni dove, risistemate le statuine del presepe, non ci resta che rifare la playlist, togliendo “Jingle Bells” e tornando a cantare “Marlena torna a casa”.
E così un altro Natale è passato, ce lo siamo levati di torno.
E a noi che cosa resta? Veramente riusciamo a impacchettare quello che questo Natale ha significato, quello che Natale significa davvero?
Il rischio, ma quello vero e serio, è che noi, insieme ai nostri alberi in plexiglass, alle lucette fluo e alle canzoni natalizie, il 7 gennaio (so di qualcuno che già il 6 a sera) impacchettiamo, rispedendola in soffitta, anche la nostra Fede. Spesso guardando al presepio vediamo una tradizione del nostro Paese da non calpestare, o un simbolo dei tanti esclusi della società che ora gridano vendetta. Tutto bello e tutto vero, ma… A forza di tirare il presepe da una parte e dall’altra, abbiamo smesso di guardare quel bambinello e meditare; abbiamo smesso di crederci abbastanza, di credere in Lui, un Dio che non può essere ridotto a simbolo, fosse anche della cosa più seria del mondo, così come non può essere usato come arma per creare divisione e odio.
Delle tante figure che hanno affollato il presepe in questi giorni, quale resta? È tutto veramente finito, sigillato in una scatola di cartone in soffitta?
Riflettiamo su questo: se abbiamo impacchettato anche la nostra #Fede; se dell’esperienza del Natale, oltre al sapore dei pranzi e delle cene, alle luci abbaglianti degli addobbi, ci resta anche altro. Ci resta cioè Qualcun altro, lo stesso che abbiamo brandito come simbolo identitario e di esclusione, che però simbolo non è, e non può essere. Qualcuno che è Dio fatto carne nella mia carne.
È questa la gioia grande, la Verità che festeggiamo a Natale, è questo Quel che resta, quando tutto il resto smette di scintillare.