“Cari giovani, non siamo venuti al mondo per ‘vegetare’, per passarcela comodamente, per fare della vita un divano che ci addormenti; al contrario, siamo venuti per un’altra cosa, per lasciare un’impronta”. Queste le parole di Papa Francesco alla veglia della GMG, che oggi come allora risuonano nelle nostre menti e ci scuotono fortemente, perché ci pongono davanti ad un bivio: rimanere comodamente seduti sul divano, convinti che questa sia la felicità, oppure metterci le scarpe ai piedi e scendere in campo, metterci in cammino. Proprio questo invito a scrollarci di dosso la felicità paralizzante di una fede fatta e vissuta dal divano, come semplici spettatori, è tornato ad interrogarci tutti, quando abbiamo appreso della volontà del Santo Padre di fare di noi giovani i protagonisti del prossimo Sinodo del 2018, dal tema “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”.
Un recente studio condotto dall’Istituto Toniolo sul rapporto tra i giovani e la Chiesa ha messo in luce come spesso si delinei, anche tra i più partecipativi, una sorta di idealizzazione di Dio secondo i propri bisogni: una fede ad hoc, un po’ come il vestito della festa che si indossa nelle grandi occasioni, ma poi ritorna chiuso nell’armadio. Non serve scomodare grandi studiosi per capire che uno, ma non l’unico, dei motivi principali di questo sia lo scollamento tra Fede e quotidianità vissuta come, tra l’altro, ci ha ricordato anche Nando Pagnoncelli in occasione dell’Incontro Pastorale diocesano. Tutti noi giovani, infatti, spesso ci scontriamo con la difficoltà di trovare un nostro spazio anche all’interno della vita parrocchiale per far sentire la nostra voce. Si crea così una sorta di alienazione per cui il mio Credo è qualcosa di altro e non ha nulla a che fare con il mio essere studente, lavoratore, giovane; ma la cosa paradossale è che questo muro si crea anche all’interno delle realtà parrocchiali per cui il mio rapporto con Dio è personale e taglia fuori gli altri, perché spesso il loro modo di vivere la Fede è, secondo me, sbagliato.
Questa realtà non deve, però, essere un alibi per non fare nulla, ma anzi uno stimolo per essere “giocatori titolari in campo”, e non semplici “riserve”. Là dove i giovani sono presenti, ricorda don Michele Falabretti, la vita parrocchiale ha tutto un altro sapore, proprio per la loro capacità di non arrendersi di fronte alle difficoltà, per l’entusiasmo semplice e vivace con cui, nelle diverse attività, si fanno portatori della Buona notizia. Quello di cui c’è bisogno è, dunque, un pastore che non semplicemente li guidi, ma cammini con loro, li accompagni. È una sfida, quella che Papa Francesco ha lanciato ai Vescovi.
Ma è una sfida anche per noi giovani, e non solo, di non essere più schiavi delle nostre paure e della confortante divano-felicità, sfida che si concretizza proprio con questo Sinodo che ci chiama, tutti, ad essere autentici, capaci di rispondere a noi stessi: “Ma tu perché vivi? Io vivo perché amo” (Paul Evdokimov) e riconoscere in Cristo Gesù la sorgente inesauribile di questo amore. È una partita che deve essere giocata non domani, ma già oggi. Spesso ci sentiamo ripetere che noi giovani “siamo il futuro”. In realtà noi siamo il presente, e di questo ne dobbiamo essere convinti sostenitori prima ancora che appassionati costruttori.
È ormai tempo di calzare gli scarponcini e metterci in cammino, senza mai perdere di vista la meta. “E questo significa essere coraggiosi, questo significa essere liberi!” (Papa Francesco, Veglia GMG)