La prima volta che sono stato ad Amatrice

La prima volta che sono stato ad Amatrice è stato quel maledetto 24 agosto. Ricordo ancora quella sveglia innaturale alle 3:36; avrei dato qualsiasi cosa per poterla posporre una, due, tre volte, fino a quando non sarei stato finalmente pronto ad affrontare una nuova giornata. Avrei dato qualsiasi cosa, ma non è stato possibile.
Sono istanti lunghissimi; accendo la televisione, “Amatrice non c’è più, Amatrice non c’è più”. “Sono il sindaco di Accumoli, qui è un disastro, è venuto giù tutto. Abbiamo ancora molte frazioni che non riusciamo a contattare”.
La prima volta che sono stato ad Amatrice è stato quel maledetto 24 agosto. Ricordo ancora la polvere, il primo sole che inizia a far capolino tra i resti di una casa di pietra scura, svelandone il triste bottino, l’aria irrespirabile, il silenzio quasi surreale, rotto soltanto di tanto in tanto dal clacson del corteo di automobili che cercano di farsi strada tra la gente rimasta in strada, in attesa. Non c’è spazio per fermarsi, per i se e per i ma, bisogna scavare, bisogna fare.
La prima volta che sono stato ad Amatrice è stato quel maledetto 24 agosto. Per molto tempo ho preferito non pensare, fare per cercare di sfuggire a quegli interrogativi il cui solo pensiero avrebbe rischiato di mandare in frantumi quelle esili colonne che, per farci forza, confondiamo per pilastri spessi. Le domande erano troppe, le certezze troppo poche, il dolore e l’angoscia troppo grandi.

In una situazione del genere, per quanto cerchi di non pensare, non puoi non interrogarti, chiederti non tanto “Chi?”o “Perché?”, ma “Dove?”, “Come?”. Com’è stato possibile tutto questo?, Come si può accettarlo? Come si può tornare a vivere? Dove riniziare? Dove trovare la forza per lasciare andare il dolore? Dove potersi riappropriare del proprio tempo?
Sono queste le sfide più grandi che come realtà pastorale oggi ci troviamo ad affrontare. Tutti noi, non solo quanti, troppi, il terremoto ha messo in ginocchio. Non è un semplice bisogno, ma un dovere quello di fermarsi e fare i conti, a tu per tu, con noi stessi, con le nostre certezze.
Ecco perché il meeting ad Amatrice. Ogni dolore ha bisogno di essere attraversato per essere lasciato andare, ogni ferita ha bisogno delle croste per farsi feritoie, ogni figlio ha bisogno del confronto con il Padre per essere rafforzato, reindirizzato.
Il rischio, in un dolore così grande, è quello di chiudersi in se stesso, convinto che gli altri non possano capire. “Ognuno segue il suo percorso, non c’è nulla che ci unisce” grido disperato del film del regista italo-svedese Erik Gandini, “La Teoria svedese dell’amore”, al centro del dibattito il primo giorno di meeting. In una società sempre più attenta a garantire l’indipendenza dei suoi membri, condizione necessaria per le piena realizzazione personale, i rapporti tra individui sono visti come ostacoli sulla scala del profitto, lo stesso desiderio di generare vita viene ridotto ad un bisogno meccanico da soddisfare.
Appunto questo è un rischio in cui tutti possiamo incorrere, soprattutto ora. Quante volte, infatti, anche noi, chiusi nei nostri percorsi, facciamo ma non viviamo?

Se c’è una cosa che forse il terremoto mi ha ricordato è che vivere significa guardare oltre, oltre le macerie, oltre se stessi, le proprie idee e paure, la propria chirurgica solitudine, perché, come si dice, “nessuno si salva da solo”. E’ con questa prospettiva che tutto assume un significato diverso, che, forse, riusciamo a uscire da quell’orizzonte chiuso in cui ci siamo rinchiusi ancor prima del terremoto, fatto di ansie e paure, sterile e infecondo autoreferenzialismo che nasce e muore con noi.
Si tratta di capovolgere il nostro sguardo sul mondo e capire che quello che ci unisce è solo l’Amore. E non a caso è questo lo slogan che ci siamo impegnati a vivere in questo meeting (6 – 8 Gennaio), perché “tra la dipendenza e l’indipendenza, io scelgo l’interdipendenza”, che significa soprattutto smettere di sentirci l’ombelico del mondo. E’ una sfida con noi stessi, eppure proprio l’ombelico è il simbolo di un dolore che si è lasciato attraversare, una cicatrice da cui è scaturita la vita.
In questi lunghi mesi tutti noi ci siamo chiesti, e non smettiamo di farlo, come si possa tornare a vivere dopo un dolore così grande, e al meeting tutto sembrava gridare “solo con l’Amore”, perché, come ricorda San Paolo “l’Amore è paziente”.
Ma non quello di due cuori ed una capanna, pago di se stesso e della propria solitudine, quanto piuttosto l’Amore che si sporca le mani per strappare la vita da sotto le macerie, e ha il coraggio di rimanere accanto dopo; l’Amore che fa male perché ti chiede di rinunciare ad una parte di te; l’Amore di Cristian, e di tanti altri come lui, per la propria terra che si tramuta in musica e quello di Suor Maria per la propria comunità che fa dire i si più impensabili, l’Amore capace di mettersi in discussione, magari anche adirarsi, ma non rimanere indifferente. Ma soprattutto l’Amore che è costante, che si ricostruisce pietra su pietra, l’Amore che non smette di cercare, pronto a “giocarsi ciò che Dio vuole”; l’Amore che è testa e cuore, mente e corpo, che non sogna semplicemente ad occhi chiusi il futuro, con le braccia conserte, ma con gli occhi aperti, oggi, ci mette il suo per fare la differenza.
Forse solo da un dolore così grande può nascere un Amore ancora più grande e forse per questo veramente oggi il Bambino è nato ad Amatrice, perché “dove c’è il dolore, là il luogo è sacro”.
Ma quest’Amore va custodito, alimentato; ha bisogno del nostro spirito, della nostra gioventù, del nostro entusiasmo, delle nostre idee, delle nostre speranze e anche delle nostre paure; ma soprattutto ha bisogno che noi ce ne prendiamo cura, che non ne siamo indifferenti, ma ci lasciamo toccare. Solo allora le ferite diventeranno feritoie, dal dolore rinascerà la vita, l’orologio di Amatrice tornerà a scandire il tempo e “questa valle tornerà come un giardino. Il cuore già lo sa. E’ nata la speranza”.
La prima volta che sono stato ad Amatrice è stato quel maledetto 24 Agosto e allora la mia fede ha rischiato di rimanere sotto quelle macerie. Ma la prima volta che sono stato veramente ad Amatrice ho riscoperto che la mia fede, il mio Dio non è quelle macerie e che spetta anche a me oggi essere il sale di questa nostra terra.

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